La scomparsa definitiva della Google Authorship dai risultati di ricerca
Capita che in un bel giorno d’agosto, di punto in bianco e senza troppe cerimonie, tutti coloro che ritenevano di aver raggiunto l’ambito titolo di ‘autore‘ nell’universo digitale targato Google tornino ad essere, dall’oggi al domani, incredibilmente ‘anonimi‘.
Con molta disinvoltura e senza troppi fronzoli ieri John Mueller ha condiviso su Google Plus un annuncio che farà discutere a lungo, temo, e che certamente coglierà di sorpresa i tanti che ancora oggi andavano studiando implementazioni di questo fatidico markup per l’authorship, da oggi in poi divenuto obsoleto.
Il post è estremamente franco e comprensibile, va detto, ma non di meno un annuncio del genere avrebbe forse meritato un contesto meno informale, considerando quanto avevano ‘speso’ in termini di comunicazione pubblica per promuovere l’adozione di quel benedetto markup.
La Google Authorship è destinata ad essere rimossa dalle Serp in ogni sua forma, e il progetto di data collection che vi è associato verrà abbandonato come tale.
Veniamo quindi alle cause concrete che hanno determinato questo passo indietro – di dimensioni non indifferenti, a mio avviso.
1 – La scarsa e tardiva diffusione del markup tra gli editori online, complice una standardizzazione oggettivamente cavillosa nella verifica del rapporto tra autore e sito pubblicante, passando ovviamente per Google Plus.
Un codice difficile da implementare sui siti e che non ha trovato quella partecipazione di massa che sola avrebbe potuto garantire l’affidabilità dei dati raccolti a livello macroscopico.
Lo pensavamo tutti da diversi anni, ma leggerlo dal profilo di John Mueller ha tutto un altro sapore.
Perché è chiaro che qualsiasi seo italiano aveva speso parte del suo tempo di lavoro per apprendere tutto il necessario per implementare la Google Authorship sul codice web dei siti patrocinati.
Ma un markup che si vuole proporre come universale tecnica di riconoscimento pubblico (almeno per quanto riguarda il rapporto tra contenuto web e suo autore materiale, in carne, ossa e codice) non può richiedere competenze di adozione da ‘specialista’, ma deve anzi essere di facile ricezione da parte di tutti.
Avendo montato tutta la galassia di widget sociali degli ultimi anni ovviamente quando si è trattato di aggiungere la Google Authorship ero pronto a litigare con le stringhe, con l’aspettativa di venirne a capo, in un modo o nell’altro.
I ‘giochini’ di Google non sono mai stati tra i più ‘easy’ da montare, in definitiva (vi ricordate il Google Friend Connect? Anche quello molto poco intuitivo, come widget/codice, e poi abbandonato nel giro di un paio di anni…).
Ma che i ‘seo’ abbiano tempo e attitudine per mettere le mani in diavolerie del genere non deve stupire, al contrario.
Il problema è che se la Google Authorship doveva diventare un markup realmente diffuso e condiviso online allora senz’altro andava previsto un sistema di adesione molto più immediato e semplice per webmaster, blogger ed editori online di qualsiasi livello.
2 – L’altro vero nodo emerso dalle parole di Mueller riguarda, implicitamente, i costi che tale operazione di scraping di massa prevede, e i relativi benefici che Google pensava di poterne ricavare, mancando evidentemente il bersaglio.
A lungo andare sembra che tali dati estrapolati dai contenuti web non andassero effettivamente a migliorare l’esperienza di navigazione dell’utente che esegue query sull’indice di Google.
Come se gli stravizi dell’era della rivendicazione compulsiva dell’identità pubblica avessero effettivamente generato l’effetto contrario a quello preventivato: ovvero la moltiplicazione dei raccoglitori di identità pubbliche, con Google Plus che rincorre Facebook, ha oggettivamente impedito l’affermarsi di quell’idea del sito/network che effettivamente in grado di agire come ‘monopolista’ dell’indentità digitale delle persone, identità che forse tornano ad essere, giustamente, frantumate e moltiplicate in social e canali di ampio genere.
O in alternativa, per chi non osa dubitare di uno dei capisaldi della ‘Social Era’, possiamo almeno ammettere che quella sfida, se c’è stata sul serio, è stata vinta da Facebook, e non da Big G.
Ma è proprio pensando a Google Plus che iniziano ad emergere gli interrogativi più interessanti.
La Google Authorship come tale scompare dalle serp, e i suoi dati non verranno probabilmente più raccolti, nel prossimo futuro.
Ce ne faremo senz’altro una ragione.
Ma la Google Authorship non era un markup ingenuamente proposto da Google a webmaster ed editori; era invece il cavallo di Troia per avvicinare tali categorie all’integrazione dei loro siti con Google Plus come social, che allora era nel pieno della sua disperata lotta con Facebook.
Oggi possiamo salutare la Google Authorship senza troppi rimpianti: i test che non funzionano vanno accolti con la stessa pazienza e lo stesso entusiasmo di quelli che invece lo fanno, se si hanno chiare davvero le basi per la ricerca e la sperimentazione.
Ma cosa dobbiamo aspettarci sul fronte di Google Plus?
In che modo un profilo Goggle Plus, sia esso personale o sia invece una pagina dedicata ad un singolo progetto web, è in grado oggi di relazionarsi con le proprietà esterne a Google, ovvero i nostri siti, quando il markup di connessione che tanto faticosamente abbiamo implementato è divenuto oggettivamente obsoleto e non più tracciato?
Disarmante quanto ovvia, ma proprio per questo significativa, la risposta di Mueller ad un interlocutore che chiedeva come la scomparsa della Google Authorship avrebbe appunto impattato su G+.
I link sono link, John, non ci piove.